un inedito, solo per voi: L.


30 Maggio 2008

Faccio il fotografo di moda, e una delle meravigliose qualità di questo lavoro è la possibilità di girare il mondo.
Così facendo non solo si vedono e si scoprono nuove realtà, soprattutto si guarda se stessi e il proprio mondo da fuori, da un punto di vista diverso, cose che aiutano a relativizzare quello che siamo.
Penso che girando il mondo non si scoprano solo nuove realtà, si scoprono soprattutto nuovi noi stessi.
È proprio in uno dei mie viaggi che ho conosciuto la persona che vorrei qui presentarvi.
Tutto comincia un anno fa a CT, in Sudafrica.
Ero in una pausa di lavoro, tranquillamente seduto in un bar.
È lì che vedo per la prima volta L.: un uomo, anzi un maschio, pelato, con la barba, pantaloni di pelle, t-shirt bianca, una via di mezzo tra un guidatore di Harley Davidson e uno spartano pronto per la guerra delle Termopili.
Con un imprevedibile dettaglio, però: due enormi tette che ballonzolavano sotto la maglietta. Tette, vere tette.
Avrei voluto fermarlo, parlargli, fotografarlo, ma rimasi lì a bocca aperta, fermo, immobile: persone particolari ne ho viste molte, ma lui le batteva tutte.
Torno ora a Cape Town dopo alcuni mesi per un nuovo lavoro e incarico il mio producer Davide di cercarmi l’uomo misterioso.
Quando glielo descrivo ho un’altra sorpresa, Davide mi dice: ” Certo, L.! Lo conosco bene, era il mio professore all’università!” Ovviamente nulla vieta ad un uomo con le tette di fare il professore all’università, ma, lo ammetterete, non è una cosa comune.
Dopo qualche giorno Davide lo rintraccia, gli parla al telefono e ci mettiamo d’accordo per vederci, fare una chiacchierata e delle fotografie.
Ci diamo appuntamento al Royal, in Long Street, forse il miglior posto al mondo per gli hamburger. Poi ci sposteremo a casa sua per fare delle fotografie.
Ma facciamo parlare lui, Lincoln:
“Mi chiamo LT, ho 35 anni e vivo a Cape Town.
Sono laureato in legge, laureato in arte, ho fatto un master in scienze sociali africane e sto svolgendo il mio PHD in scienze sociali.
Sono avvocato, ma lavoro soprattutto come autore cinematografico.
Insegno all’università di Cape Town.
Incomincio a modificare il mio corpo a 20 anni, con il primo tatuaggio. Da allora ho tatuato quasi tutto il corpo, ho persino perso il conto di quanti siano i segni sulla mia pelle, per me è solo uno. Dopo i tatuaggi ho incominciato a voler fare interventi più profondi sul mio corpo, prima i piercing, poi vere e proprie trasformazioni corporali.
Tra le altre ho fatto la modifica dei miei lobi delle orecchie, allungandoli, allargandoli, e, con un’operazione chirurgica, attaccandoli alla pelle del collo. Proprio durante questo intervento, che ho eseguito da un chirurgo estetico, ho visto per la prima volta delle protesi al silicone e ho subito pensato che avrei tanto voluto averle in me. Non volevo essere femminile, ho capito che quello che volevo era solo avere due meravigliose tette.
Non ho mai preso infatti nessun ormone. Io voglio essere e continuare ad essere un maschio al 100%.
Non è stato facile trovare il chirurgo disposto a fare l’operazione; alla fine ne ho convinto uno, soprattutto grazie alla reversibilità del tutto.
Non mi pento mai della scelta che ho fatto, anzi mi pento solo di una cosa: di non essermele fatte ancora più grandi.
Non voglio assolutamente essere parte di un genere sessuale preciso e definito: non sono uomo, perché ho il seno, ma sono totalmente maschio, perché è quello che voglio, e non sono neanche un travestito, perché ben diversi da me sono i travestiti.
Chi non è soddisfatto della propria sessualità la vuole cambiare per essere qualcosa di diverso, per essere qualcos’altro. Io sono felice di quello che sono adesso.
Sono gay, amo gli uomini. Ho una relazione stabile e duratura con un altro uomo. Anche lui qualche tempo fa si è fatto implantare un seno nuovo. Il mio compagno suona la viola nell’orchestra sinfonica qui a Cape Town.
In quello che sono e in quello che ho fatto ci sono per me delle fortissime valenze politiche e sociologiche: trovo che in questo mondo e in questa società, soprattutto qui in Sudafrica, la gente sia troppo abituata a guardare la superficie delle cose.
Quello che io voglio fare è sconvolgere le persone, per far perdere i riferimenti che permettono e invogliano a giudicare.
Vorrei che le persone tornassero a pensare senza farsi distrarre dalle apparenze e per assurdo il mio corpo “apparente” è l’antitesi di uno sguardo superficiale.
Recentemente sono stato in America per il matrimonio di mia sorella, che si è sposata con emigrati indiani naturalizzati americani: difficile immaginare persone più conservatrici.
Se mi avessero incontrato per strada non mi avrebbero rivolto la parola neanche sotto tortura. Invece abbiamo parlato, all’inizio con difficoltà, poi con più naturalezza e semplicità: dopo un pomeriggio insieme si erano completamente distratti dal mio aspetto.
Li avevo aiutati a vincere una sfida, e insieme a me questa sfida l’avevano vinta.
La gente pensa per “end point”, la società c’illude fissando dei punti d’arrivo, delle scadenze che devi rispettare per far finta d’essere felice. Io non voglio essere così, per me ogni giorno deve essere una sfida.
L’Africa mi dà degli spunti meravigliosi. Nella cultura zulu c’è una parola che a me piace molto: UBUNTU. Significa che la gente è quello che è a causa dell’altra gente. Noi siamo il riflesso degli altri. In fondo noi siamo, gli altri.
M’interessa quindi, grazie alle mie trasmutazioni, aiutare gli altri a confrontarsi con qualcosa di diverso da loro, estraniandoli anche da sé stessi.
Quello che faccio vorrei aiutasse la gente a pensare alla propria individualità.
Chi sono? Chi siamo?”

Sono stato tutto il pomeriggio con Lincoln, per intervistarlo e fotografarlo.
Prima nel bar di Long Street, poi a casa sua.
Tutto quello che ho visto e ho sentito mi ha fatto bene: mi ha fatto pensare.
Alla semplice, vecchia, desueta domanda:
Chi sono? Chi siamo?


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