IL RITRATTO: BENASSI BY THORIMBERT /// AGGIORNATO

31 Ottobre 2014

il ritratto è, per un fotografo, un tema complicato. temo che spesso venga interpretato come il fotografare, semplicemente, una faccia. se così fosse sarebbe non complicato, ma facilissimo: io ho una macchina fotografica in mano e con quella faccio una fotografia alla persona che ho davanti, con il suo consenso. magari usando una bella luce e successivamente una efficace post produzione. caso classico quello del pescatore con tante rughe in bianco e nero, l’avete in mente, no?: probabilmente bella fotografia ma certamente inutile, e quindi bruttissima.

e perché tutto ciò? cosa dovrebbe avere un ritratto per diventare un Ritratto?

tre cose semplici semplici, e quindi complicatissime: dovrebbe raccontare della persona ritratta, dovrebbe raccontare del fotografo e infine, dovrebbe raccontare del giudizio che il fotografo ha della persona ritratta. tutto qui. nulla di più e nulla di meno. tutto questo ovviamente nella mia opinione…

vi voglio quindi far vedere un’immagine che non solo mi aiuta a far comprendere come dovrebbe essere un buon ritratto, ma mi permette anche di spendere qualche parola sul linguaggio della fotografia. che va, come tutti i linguaggi, capito per essere compreso.

l’immagine è questa, un Ritratto realizzato da Toni Thorimbert a Jacopo Benassi:

foto[1]

 

allora, apparentemente è una fotografia di un signore con un sacchetto di plastica in mano. questa la superficie. questo ciò che si vede. giusto?

guardate bene, però. quel sacchetto è abbastanza pieno, e non sembra pieno di frutta e verdura di una recente spesa. riuscite a capire cosa c’è dentro? io so la risposta, perché la conosco dai diretti interessati, però non è che sia necessario conoscere esattamente i fatti: l’importante è che grazie ad alcuni elementi l’immagine stia sù, abbia senso. come dico spesso nei miei incontri non è che dobbiamo conoscere le formule di calcestruzzo per non farci preoccupare che il tetto che adesso è sopra la mia e vostra testa ci caschi addosso: ma siamo sicuramente consapevoli che ci siano state delle formule precise che hanno fatto in maniera tale che qualcuno abbia deciso come fare questo tetto e che quindi questo tetto stia su. chiaro?

comunque, tornando alla nostra fotografia: Jacopo ha in mano un sacchetto. questo sacchetto ha dentro dei vestiti, per un piccolo viaggio che Jacopo e Toni hanno fatto insieme. insomma, quella è la valigia di Jacopo Benassi. lui parte per un viaggio di tre giorni e dove mette le sue magliette e mutande? in un sacchetto di plastica, neanche dell’esselunga, pure no brand: non ha uno straccio di marchio neanche il sacchetto! miseramente bianco!

questo dettaglio non racconta in maniera incredibilmente fedele l’estetica punk e anarchica (vedi maglietta!) di Jacopo? non c’è forse tutto il racconto di chi lui è?

tutto questo filtrato dal punto di vista di Toni, che non cede alla facile tentazione del bianco e nero (che sia porterebbe l’immagine ad essere ancora più “benassiana” e sia, lo sappiamo, fa sempre la sua porca figura) ma usa un colore molto “thorimbertiano”, semplice, pulito, secco.

perché fa tutto questo? perché c’è una enorme empatia, tra il fotografo e il fotografato, non solo per questioni di amicizia, ma perché il fotografo, anche lui!, qualche anno prima, quando la sua anima punk ed anarchica era ancora più visibile di adesso si comportava nella stessa identica maniera: la sua valigia era un sacchetto di plastica.

e poi c’è Jacopo, che non si atteggia, che non posa, che fa ciò che sempre fa, da fotografo, nelle sue fotografie: dice “eccomi qui, io sono qui, così”. pur vestito e normalissimo si mette a nudo.

ecco quindi che succede quella magia, quando una fotografia di una persona diventa una Fotografia che è anche un autoritratto che celebra l’empatia tra due persone che accettano di raccontare e di raccontarsi: un vero Ritratto.

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AGGIORNAMENTO:

ecco, per l’appunto: questo ritratto e questo mio post erano, nelle mie intenzioni, proprio l’occasione non solo di parlare di RITRATTO ma anche e soprattutto il ribadire che la Fotografia è un linguaggio e come tale debba avere dei precisi strumenti di “decriptazione”.
La famosa frase “la fotografia è come una barzelletta…” non è giusta o sbagliata, va inserita in un contesto.
Di una cosa sono certissimo: essendo la Fotografia un linguaggio ha bisogno di strumenti per essere capita.
La più bella poesia giapponese a noi sembra una massa di segni e nulla più.
Purtroppo mentre nel linguaggio scritto è evidente che servano strumenti di comprensione (nessuno direbbe: questa poesia giapponese non mi piace) nella fotografia c’è l’illusione che sia facile e di altrettanta facile comprensione: NON è così.
Anche perchè poi ci si limita al MI PIACE/NON MI PIACE: e sapete cosa?!? Quando ci si limita al MI PIACE senza capire e comprendere il linguaggio e la struttura profonda delle cose ciò che piace è sempre tutto ciò che è superficiale, inutile, scontato e, in fondo, brutto.
Le cose profonde vanno SEMPRE spiegate per essere capite.

PS: questo blog, dal 2003, non ha alcun filtro ai commenti. Penso sia buona educazione commentare con educazione e correttezza. Non penso sarebbe un bel segnale se, per colpa di qualcuno, io dovessi, dopo tanti anni, ricorrere alla moderazione preventiva. Grazie.

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