sport illustrated cover
2 Novembre 2005
[it]mia copertina, appena uscita, di sport illustrated... http://www.sasiswimwear.co.za/swimwear.asp[/it]
ho trovato, in fondo a un cassetto di gioventù, uno svolgimento (era tema libero, suppongo) il cui titolo era “Fotografia: documento o arte”.
non so bene quanti anni avessi, non è datato, ma secondo me ero al ginnasio, quindi 15/16 anni. forse 17.
l’abbiamo “decifrato” e trascritto.
eccolo qui:
La fotografia, fin dalla sua nascita, si è trascinata dentro due equivoci o pregiudizi che costantemente hanno influenzato il suo corso durante la storia.
Questi pregiudizi sono quello oggettivista e quello che sostiene l’impossibilità di creare una vera arte a causa di una presunta contaminazione della tecnica e della meccanica che sono alla base del procedimento fotografico stesso.
Questi sono due preconcetti che si sono rivelati con il tempo falsi ma ancora oggi posseggono una serie di proseliti: a proposito della supposta impossibilità del fare arte a causa della contaminazione meccanica vi sono molti che affermano che è impossibile che possa esservi un intervento del fotografo nell’operazione e che questo si debba ridurre ad una sola presenza passiva.
Io risolverei la questione dicendo solo che la tecnica è indispensabile per un discorso autonomo, ma che è anche indispensabile una visione originale e soprattutto personale che asservisca la tecnica al nostro volere.
Dice ad esempio Raffaello “Impara il tuo mestiere; non basta il mestiere per diventare artista, è vero, ma il mestiere [la tecnica] è necessario. Non basta mangiare per vivere da uomo, ma non si vive se non si mangia. Arte in italiano significa prima di tutto mestiere”.
Quindi necessaria la tecnica, la quale può però essere soggettivamente filtrata, come ci dice Rinholds: “ A dispetto del mezzo meccanico di riproduzione che comporta molteplici cause oggettive, ci sono stati molti fotografi che hanno dimostrato un loro stile fotografico. Queste persone sanno già in partenza che cosa vogliono e la loro idea originale viene attuata attraverso l’intero ciclo lavorativo sino alla fase finale della stampa.”
Questo primo pregiudizio che ho brevemente analizzato effettivamente può essere riscontrato quando ci si trova di fronte a certo stupido fotoamatorismo, davanti ad una situazione cioè che vede veramente il fotografo asservito a certe tentazioni di virtuosismo tecnico che lo allontanano dalle sue vere e personali aspirazioni.
A proposito dell’oggettività della fotografia il problema si fa più complesso e coinvolge un po’ tutto l’andamento che la fotografia ha avuto nella sua esistenza.
Infatti “oggettivo” può stare anche per “fedele” e questo sillogismo ha portato a molti fraintendimenti non solo nel campo fotogiornalistico ma anche in quello artistico. Infatti la maggior parte della gente ha sempre pensato, coscientemente o più spesso incoscientemente “La fotografia è oggettiva, quindi è fedele al reale e quindi tutto ciò che vedo in fotografia è esistito esattamente come è nella fotografia”.
Questo pregiudizio nei riguardi della fotografia fu particolarmente sentito all’epoca della sua nascita e in tutto il 1800 mentre nel nostro secolo ha avuto in più uno spostamento di piano decisivo entrando nei limiti della cosiddetta fotografia artistica.
Mi spiego meglio: appena nata la fotografia stupì immensamente per la sua capacità (supposta) di far vedere il reale così come appare. Infatti la fotografia trovò le sue prime applicazioni pratiche oltre che nella ritrattistica, che ha una sua particolare motivazione sociale, non tanto nel reportage quanto invece nel documento: il documento esotico di fatti, di posti sconosciuti o lontani.
Vediamo quindi ad esempio O’Sullivan girovagare per l’America per mostrarne gli aspetti più particolari e curiosi, come anche W. H. Jackson o R. Fenton fotografare la guerra di Crimea o vari fotografi partire dall’Europa per esplorare le lontane terre orientali o le meraviglie dell’Egitto.
Le fotografie che questi fotografi portarono in patria stupirono l’opinione pubblica che ancora più si convinse delle miracolose potenzialità della fotografia: questa convinzione si sviluppò in una corrente di pensiero che è viva ancora ai giorni nostri e che vorrebbe la fotografia unicamente come documento della realtà. Della nostra vita.
Tutti gli studi di critica ormai insistono solo su questo: esempio paradigmatico è la critica americana S. Sontag che fa di questo pensiero le sue basi.
Anche la fotografia cosiddetta artistica e quella non fatta sotto precise committenze viene analizzata come sottoposta a questo canone e grandi fotografi sono analizzati unicamente come documentaristi.
Questo concetto conduce la Sontag a delle considerazioni sociologiche che non ritengo possano essere valide per qualsiasi tipo di fotografia: ecco ad esempio cosa scrive nel suo saggio “Sulla fotografia”: “Ogni fotografia è memento mori. Fare una fotografia significa partecipare alla mortalità, alla vulnerabilità ed alla mutabilità di un’altra cosa o persona” e ancora “guardare una fotografia significa per prima cosa pensare: quanto più giovane ero (o era) allora. La fotografia è l’inventario della mortalità. Basta un movimento del dito per conferire ad un momento un’ironia postuma. Le fotografie mostrano persone che sono lì ad un’età specifica della loro vita”. Oppure afferma che la fotografia è dare una prevalenza, un’importanza a qualche cosa rispetto ad un’altra.
Tutto ciò è vero, assolutamente vero, ma, attenzione, solo per un tipo di fotografia (che è poi il più diffuso a tutti i livelli): quello di una fotografia fatta per stupirsi nella sua contemplazione e ,soprattutto, per stupire gli altri; quello di una fotografia bella, piacevole a vedersi, ma tutto ciò in modo passivo e non attivo perché bella e piacevole non sarà la fotografia in sé per sé, ma l’oggetto fotografato (concetto questo ben accennato anche dal Turroni nel suo saggio “Guida alla critica fotografica”).
Il normale e tranquillo fotoamatore fotografa non tanto per esprimere sue le sue vere pulsioni interiori, ma quanto per avere una testimonianza decisiva e sicura della sua visione di un dato fatto o di una certa cosa. E così passa in dieci minuti dal fotografare tramonti rosso fuoco al fotografare vecchiette con “tante belle rughe”: tutte cose che non sono legate se non dalla volontà di stupirsi e di stupire del fotografo.
Esiste però un’altra fotografia, molto diversa da quella analizzata dalla Sontag . Anzi completamente opposta. E’ la fotografia che possiamo veramente dire aver inventato il grandissimo A. Stieglitz, il fotografo americano vissuto nei primi del ‘900. Egli creò il concetto degli “equivalents” che non solo appunto portò ad una fotografia originale ma anche ad un nuovo modo totale di concepire e fare fotografia.
Il concetto degli “equivalents” è semplice: quando Stieglitz, ad esempio, fotografava delle nuvole, quelle nuvole per lui non erano il punto di chiusura della sua indagine fotografica ma quello di partenza, dato che esse rappresentavano un qualche cosa di diverso, astratto, su un altro piano.
La fotografia così diventò vera espressione, vera potenzialità, attiva e creativa, vero strumento di indagine, possiamo anche dire, filosofica.
Stieglitz infatti ad esempio disse: “Sono nato ad Halsocken. Sono americano. La fotografia è la mia passione. La ricerca della verità la mia ossessione”.
Il Nostro in questo si avvicina molto anche alla pittura e infatti nella sua galleria, la “291”, introduce le avanguardie pittoriche del suo tempo.
La fotografia di Stieglitz è quella contro la quale si getta la Sontag la quale, sempre nel suo saggio “Sulla fotografia” parlando di Evans scrive: “Evans voleva che le sue fotografie fossero colte, autorevoli e trascendenti. Ma poiché l’universo morale degli anni trenta non è più il nostro, questi aggettivi oggi sono quasi incredibili. Nessuno riesce ad immaginare come potrebbe la fotografia essere autorevole. Nessuno chiede più che essa sia colta. Nessuno capisce più come una cosa qualunque, e tanto meno una fotografia, possa essere trascendente….”
Si vengono quindi proprio a creare due tipi distinti di fotografia una, diciamo così, artistica e l’altra documentaristica.
Questa divisione però spesso non si fa in base a precisi schemi mentre quello che vorrei io fare è proprio dare degli schemi quasi scientifici, per differenziare in modo netto i due settori. Per rendere ciò più snello chiamiamo la prima fotografia artistica A, mentre la seconda, quella documentaristica B.
Come divisione sostanziale cominciamo a dire che la A è l’espressione pura dei sentimenti e delle passioni umane, mentre la B è documento di situazioni. Se qualcuno mi dicesse che anche nella B si possono intravedere i sentimenti dell’autore delle fotografie, io risponderei a queste obiezioni osservando che tali sentimenti sono sì scopribili e avvertibili ma solo di riflesso a causa della maniera, della tecnica in cui il fotografo ha fotografato e quindi interpretato una data situazione, ma non è genuina espressione, è critica!
Procedendo, diremo che la B è uccisione dell’oggetto fotografato (come pure sostiene R. Barthers) perché esso una volta fotografato e analizzato da chi lo guarda si consuma totalmente, la sua funzione si esaurisce.
Nella A invece l’oggetto è il punto di partenza e quindi essa è vivificazione.
Come conseguenza di queste ultime considerazioni diciamo anche che la A coglie il momento in cui l’oggetto diventa soggetto mentre la B coglie il momento in cui il soggetto diventa l’oggetto.
Inoltre possiamo anche affermare che la A procura delle emozioni mentre la B delle nozioni; inoltre che la A rappresenta situazioni che sono totalmente irriconoscibili e soggettive poiché in questo tipo di fotografia si fotografa non per mostrare agli altri e a se stessi un qualche cosa di nuovo o vissuto, ma per esprimere dei sentimenti personali che devono soddisfare unicamente l’autore. Al contrario la B rappresenta situazioni che necessariamente devono essere riconoscibili ed oggettive.
Un’altra considerazione importante è che la A non presenta e non deve presentare una situazione così com’è ma stuzzica, allude per innescare nel ricevente un PERSONALISSIMO atto di EMOZIONE. Invece la B non stuzzica assolutamente ma strappa delle decisioni, pone difronte a dei fatti ben precisi che ci dispongono in altrettanto precise convinzioni.
Su questo punto ad esempio Fulvio Roiter dice “la fotografia non deve alludere, non deve suggerire, deve mostrare con chiarezza”.
Se ci spostiamo ora su di un piano di analisi linguistica anche in questo caso ci troviamo di fronte a differenze sostanziali tra i due tipi di fare fotografia. Innanzitutto diciamo che la B è legata a fattori extrafotografici (linguaggio, cultura ecc) che ne influenzano profondamente la lettura, mentre la A contiene tutte le unità morfologiche. Si deduce così che la A è un unicum, con un suo codice particolare, che è la fotografia stessa, mentre nella B tutte le fotografie di uno stesso cielo sono legate ad un particolare codice. Da qui notiamo quindi una cosa molto importante ovverossia che la A è completamente universale mentre la b è universale solo sul piano primario. Nella A l’unica cosa di cui bisogna essere a conoscenza visiva è ciò che è rappresentato nel piano primario (ad esempio un uomo che è sempre vissuto in una caverna non si potrà mai commuovere di fronte ad una nuvola, cosa che non ha mai visto: in questo caso subentra la fotografia documento).
Deduciamo dunque che la A è mezzo di comunicazione mentre la B è sistema di comunicazione e quindi linguaggio (vedi distinzioni del Mounin). E ancora nella A il piano primario e quello secondario coincidono, nella B coesistono.
Abbiamo visto quindi come si diversificano i due tipi di fotografia. Distinguerli non è semplice, dato che non è detto che una fotografia appartenga esattamente ad un gruppo o all’altro e secondo me è sufficientemente inutile analizzarlo per porre una data fotografia in una particolare fascia, sia pure intermedia.
Ad ogni modo è assolutamente indispensabile per dare un giudizio di questo genere riguardo ad un autore esaminare non una sola fotografia ma molte che se appartenenti a B saranno legate da un unico codice di lettura, mentre se di A saranno appunto accumunate da un’ assenza di codice.
Dare ora un giudizio di valore sui due tipi di fare e intendere fotografia presi in considerazione forse non ha molto senso, ed è certamente sbagliato affermare categoricamente che un dato tipo di fotografia sia migliore o peggiore dell’altro.
Non mi asterrò però dal citare un piccolo brano tratto dallo Zibaldone di Leopardi: “Il presente, qual che egli sia, non può essere poetico, e il poetico, in uno o nell’altro modo si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago”…